Non lo so che cosa mi stia succedendo, forse si sta solo verificando quella condizione che su Instagram avevo descritto quando presentai ai miei followers i paninetti con la mozzarella nell’impasto, di precarietà nelle mie decisioni, soprattutto per quanto riguarda la loro durata. Vi ricordate? Parlavo del fatto che dopo anni di onorato servizio la mia prima reflex, modello baracca, mi aveva abbandonata, proprio mentre scattavo le fotografie di quei paradisiaci bottoncini soffici. Avevo una reflex modello super basic, regalo di mio padre, che conoscendo questa mia indolenza verso tutto, più o meno lunga temporalmente, non mi aveva regalato il top di gamma, ma una reflex che mi togliesse il cellulare dalle mani quando fotografavo le mie preparazioni. Lui sapeva che prima o poi avrei potuto stancarmi.
Ed effettivamente questa stanchezza è arrivata, ma non sono stanca di cucinare, non sono stanca del blog né di fotografare, ma sono stanca di alcune dinamiche di Instagram che, ad oggi, è il solo Social Network che utilizzo, non avendo più un account Facebook (vivaddio direi). Detesto la dinamica in base alla quale le aziende che “assoldano” tizio o caio per promuovere il proprio pacco di lupini o la propria cipolla turchina. I numeri. Ad oggi anche mia nipote sa che i numeri di Instagram si comprano, attraverso catene di Sant’Antonio sotto forma di Giveaway, o con i Bot, robottini programmati più o meno bene che svolgono il ruolo social al posto tuo, 24 ore su 24. Di recente una concorrente dell’attuale Masterchef ora in onda ha iniziato a seguirmi e mi ha tolto il follow nel giro di 30 minuti, per sette giorni di seguito, allo stesso orario. Ma che davvero?
Premettendo che a me non mancano i soldi per acquistare la suddetta cipolla turchina o il pacco di pasta senza glutine, è il criterio di scelta del nano-influencer da parte delle aziende che mi sconcerta. E alla lunga vedere che io che mi faccio un deretano tanto per scattare foto invitanti, cercare i props adatti ed i tessuti in tinta, che seleziono le fette di formaggio e le mele affinché siano fotografabili una volta inserite nel set fotografico, vengo superata da gente che fotografa col cellulare su tovaglie incerate da camper gitano, con effetti fotografici da tuning auto, che ogni santissimo giorno sponsorizza la spezie, la bottiglia di prosecco, la salsa di piselli, la salamella al sugo.
E così con la pubblicazione del post sul feed di Instagram numero 500, ho annunciato un silenzio stampa su quel canale, a tempo indefinito. A dirla tutta avrei chiuso il profilo lo stesso giorno, allo scoccare della mezzanotte, ma ho ricevuto davvero molta solidarietà, molti attestazioni di stima, carezze virtuali, e così il mio profilo è lì, dorme come la Bella Addormentata in attesa di un principe che si chiama voglia, di uno che si chiama strafottenza e di un altro che si chiama superiorità acquisita, che vengano a risvegliarlo.
Nel frattempo porto avanti il blog che, a dispetto di qualsiasi mia aspettativa, sta andando avanti da solo, con le proprie gambe. 30mila utenti unici al mese per me che non sono nessuno, nemmeno una nano-influencer, sono bei numeri.
E così dopo la ricetta non ricetta delle castagne al forno, per la quale mi sarei aspettata un giudizio impietoso di Alessandro che invece non è arrivato, dopo un silenzio lungo una quaresima, ripubblico oggi un banana bread, secondo la ricetta di un amico virtuale conosciuto proprio su Instagram, a testimonianza che qualcosa di buono quel social lo ha avuto anche per me. Guido è romano de Roma, ma vive a Londra da tot anni, ed è uno dei migliori palati che ho avuto la possibilità di conoscere online. Lungi dall’essere un cuoco, uno chef vero o millantato, Guido produce pani meravigliosi, con il suo lievito madre (che io personalmente ho assassinato), focacce eccellenti, piatti fusion strepitosamente golosi ed è una persona curiosa, curiosa e golosa, il cui binomio è garanzia di eccellenza, per me.
Quando ho visto il suo Banana Bread me ne sono innamorata, ragion per cui lo ho rifatto prendendo pari pari la sua ricetta, generosamente condivisa sotto la fotografa, e che vi copio nella scheda della ricetta.
Scrivo e sorrido perché proprio il Banana Bread è stato argomento di una piacevole serata di chiacchiere tra me, Cristiana e la nostra maestra di foto Stefania Casali, al ristorante indiano ingozzandoci di curry, naan e white murgh. Stefania che, come me, non ha peli sulla lingua, parlava di quanti banana bread si vedessero in giro per la blogosfera, tutti con la medesima decorazione in superficie. Una banana tagliata per lungo, divisa a metà, posizionata sul panetto. Inevitabile il paragone che non sto qui a dirvi. E così per anni ho sempre preparato il banana bread senza mai fotografarlo. Anche perché, diciamocelo, non ho mai fatto mistero di quanto non ami il colore marrone, meno che mai da fotografare. E il banana bread ha bisogno che la banana si veda, al primo colpo d’occhio, perché si differenzi da un cake qualsiasi, senza però sentirsi tutte delle Lorena Bobbit nostrane.
Il Banana Bread di Guido non ha nessuna banana in superficie, si va a fiducia, attratti dalla presenza di una quantità indefinibile di noci pecan a decorazione del cake e che, grazie a lui, ho scoperto che con le banane sono “la morte sua”.