No, non mi sono rincoglionita. Kapi non è una variante del nome del cachi, è il soprannome di mia cugina Eleonora. Non so se vi ricordate quando, su Instagram, il giorno del compleanno di mia sorella Paola, ho raccontato il motivo per il quale è soprannominata Mogol. Se non mi seguite su Instagram non lo saprete mai, ma siccome si avvicina Natale e voglio essere buona, ve lo copincollo.
Ho iniziato ad amare il lavoro di autore televisivo in un momento ben specifico della mia vita.
Ero adolescente, in quella fase in cui tra sorelle ci si chiama con appellativi improbabili (bagascia, zoccolona ecc) e la sera a casa mia si guardava fissa una trasmissione meravigliosa, Tira e Molla, condotta da Paolo Bonolis.
Gli autori si divertivano a fare ricerche in tutti i campi dello scibile umano, per fare in modo che Bonolis pronunciasse, formulando le domande dei vari mini quiz, parole tendenzialmente equivoche e volgari (succede ancora oggi nelle sue trasmissioni) e l’intera puntata, tra la sua innata ironia, le sue facce e questi siparietti, diventava per noi un appuntamento irrinunciabile.
Il gioco finale consisteva nel far indossare agli sfidanti, collocati in due mezze uova di resina, cuffie con musica sparata a volume altissimo, e Bonolis gli proponeva di scambiare il proprio montepremi, a volte con cagate atomiche altre volte con premi di gran lunga di valore piú alto. A loro toccava accettare o no, senza aver ascoltato la domanda.
Un giorno Bonolis propose ad un concorrente di scambiare i suoi 3 milioni del vecchio conio con un gioco da tavola indiano in legno, dei Moghul Puttan (dinastia di una particolare etnia indiana). Pronunció Moghul come Mogól, e io usai subito quel nome, col “cognome” puttàn, per chiamarci mia sorella. Sono circa 30 anni che Paola si chiama Mogol 😂, Moghy per gli amici.
Mia cugina Eleonora ha avuto una storia simile per il suo soprannome che con gli anni da Janira Kapirama si è evoluto nel semplice Kapi.
Eleonora, che ad oggi si chiama ZiaLeo perché così la chiama Vittoria, da piccola era tremenda, urlatrice, un moto perpetuo. Mia mamma e sua mamma, la chiamavano Janara o la Strega di Benevento.
Le janare sono streghe nate dalla tradizione contadina beneventana, e sono protagoniste di numerosi racconti. Si trattava di donne che possedevano la conoscenza dell’occulto e dei riti magici, come le fatture e il malocchio, capaci di rovinare la vita.
Queste streghe avevano le fattezze di donne anziane molto in avanti con gli anni, che di giorno svolgevano una vita normale, mentre la notte uscivano fuori di casa urlando, galoppando cavalle rubate nelle stalle dei contadini del luogo, stappandogli i peli delle criniere e commettendo nefandezze. La tradizione vuole che per scongiurare l’ingresso in casa di una janara, bisognasse mettere fuori dalla porta una scopa. La janara, infatti, non poteva entrare in casa se prima non aveva contato tutte le setole della scopa. Oppure bisognava sempre appendere fuori dalla porta una corona d’aglio, oppure dei ferri di cavallo o dei chiodi.
Il termine viene spesso scherzosamente rivolto alle donne che hanno atteggiamenti acidi e che sono appunto tremende.
Un giorno, guardando non ricordo più quale cartone animato, un personaggio di sicuro secondario si chiamava Janira Kapirama. Janira era simile a Janara, Eleonora acquisì quindi questo nome e cognome, e col tempo Kapirama è diventato il semplice Kapi.
Quando ho voluto anche io provare questa ricetta/non ricetta che imperversa come un tormentone su Instagram in questo periodo, il budino di cachi con soli due ingredienti, mia zia lo ha visto nelle mie stories e mi ha subito contattata su Whatsapp. Quando le ho detto che oltre ad un frullatore, un caco molle e 15 grammi di cacao non le serviva altro, ha subito detto – “Questo va bene per Eleonora, che s’è messa a dieta e così il dolcino lo può mangiare anche lei”.
Il collegamento Kapi/Kaki è stato immediato, perciò mentre ovunque lo trovate come budino di cachi o budino con due ingredienti, qui lo trovate come il Budino di Kapi. E ora sapete il perché (oltre a confermare la follia intrinseca nella mia famiglia).
Che nome buffo che ha questo frutto e anche se qualcuno li chiama loti o diosperi, termine che viene dal greco come quello di molti altri frutti e che significa “frutto caro agli dei”, se non dici caco e cachi non li riconosce nessuno. E qui cachi, kaki a dire il vero, lo abbiamo mutuato dal nome giapponese del frutto.
In Campania, oltre che col dialettale cachissi, vengono anche chiamati legnasanta. E anche qui entra in ballo il fattore divino. Se si taglia a metà dall’alto in basso un frutto della varietà dura, credo sia il caco mela, nella parte centrale del frutto, che si chiama placenta (scusatemi ma ogni tanto si sveglia il Piero Angela che é in me) si scorge una figura diramata bianca, identica al 90% delle volte a Gesù sulla croce. A volte si vede meglio altre peggio ma questo è il motivo per cui si chiama legnasanta (in spagnolo Palo Santo).
I cinesi, che sono sempre un po’ più sognanti e filosofici, lo chiamano l’albero dalle sette virtù. Loro amano dare nomi lunghissimi a cose e persone, tipo il proprietario del mio ristorante cinogiappo preferito a Roma che ha 34 nomi tipo Pdor figlio di Kmer della dinastia Pfmir e poi si fa chiamare Luigi.
Le sette virtù consisterebbero nella longevità della pianta, la resistenza ai parassiti, la capacità concimante delle foglie nel momento in cui cadono al suolo e diventano compost fracicandosi, il fornire ombra, la bellezza del foliage in autunno, il bel fuoco che si ottiene bruciando la sua legna, il riparo e giusto luogo per fare il nido e i succosi frutti, cibo anche per gli uccelli.
Ecco gli uccelli. Quanto li schifo… Io un albero enorme di cachi in giardino lo avrei pure, della varietà caco moscio che è quello che occorre per questi budini ma che nn so come si chiami. Ma se ogni anno riesco a raccoglierne 4 frutti non beccati dai corvi, senza cimici sotto la corolla superiore e soprattutto che non allappano (è il termine tecnico per indicare quella reazione chimica che fa in bocca un morso a un caco non maturo. Le mucose ti si trasformano in calce e se ci bevi sopra per far passare il fastidio, ci stucchi i muri) è grasso che cola.
La fortuna è che per fare due stampini di questo dessert ce ne vuole uno solo. Basta frullare 200 grammi di polpa interna di un caco molle grande con 15 grammi di cacao in polvere per 2 minuti e versare il composto ottenuto negli stampini da budino che più vi piacciono. Io ho usato quelli di acciaio inossidabile da creme caramel. Dimenticateli in frigorifero per minimo 3 ore e sformateli quando avete voglia di dolce con pochi sensi di colpa.
A proposito del cacao in polvere apro una parentesi. Il caco molle spesso se non è proprio arancione acceso scuro non è per forza dolcissimo, quindi in unione col cacao amaro diventa un budino abbastanza punitivo da “aggiustare” con qualcosa di dolce (tipo granella di cocco in superficie o panna montata) ed ecco che il dolce fit diventa ‘na bomba calorica che a quel punto era meglio farlo con le uova, lo zucchero, la farina e amen. Perciò vi consiglio di assaggiare la polpa del cachi, e casomai non fosse dolcissima usate cacao in polvere zuccherato e non quello amaro.
Fine della ricetta. Un bacio ai pupi.