Era una vita e mezza che volevo preparare questi sfiziosissimi snack, niente affatto light, per utilizzare in un modo diverso dal ragù classico napoletano, questo formato di pasta che adoro: i Paccheri. Aspettavo però la pasta giusta, pasta che è arrivata quando ho saputo, e me ne sono fatta una ragione, di essere celiaca, e quindi non ho potuto proprio approfittarne. Oddio, io uno lo ho mangiato, due via, mi sono sentita parecchio male dopo ma ne è valsa la pena.
La pasta giusta che ho nominato poco fa è la Pasta Di Martino, e no, non è un marchettone, l’ho comprata, l’ho provata (fatta provare) e ce ne siamo innamorati ed è per questo che decido di condividerla con voi. E per me non ne esiste nessun’altra. E’ sempre stato complicato trovare i formati della pasta Di Martino andando in giro per i supermercati, sarò forse stata sfigata io, ma trovavo solo i classici (penne, bucatini, spaghetti). Perfino Esselunga, dove sono andata diretta facendomi la traversata di Roma certa di trovarla, in effetti non la ha. I soli formati che trovavo, li trovavo al Carrefour di Tarquinia!!! Ma ogni volta restavo inebetita a guardare i piatti di Teresa De Masi o di Rosaria Orrù che avendoli a portata di mano, utilizzavano l’orzo, il rosmarino, le margheritine, le tofette…
In occasione del lockdown, mentre il mio supermercato di zona faceva storie per consegnare la spesa a noi del centro residenziale per mille cavilli e cazzate varie, la Di Martino si organizzava anzitutto rendendo disponibili sul proprio sito l’eshop con TUTTI i formati, ma spedendoli senza vomiti e castrazioni mentali, in tutta Italia. Tra l’altro con un corriere privato, senza nemmeno essere soggetti a tutti i ritardi di Bartolini, GLS et alii.
Il primo ordine che ho fatto, il primo mese, includeva Paccheri e Trottole (oltre ad una serie di pastine minuscole perché mi era venuta la sindrome del nido con brodo d’ordinanza), e in una settimana ho preparato sia le trottole con crema di patate e cozze, sia i paccheri fritti, che pubblico solo oggi. Questo perché tra la depressione da lockdown, i problemi di oliva, la pecondria che mi è venuta, la reflex rotta, a tutto ho pensato fuorché al blog. Oddio non è proprio così perché tra le trottole e questi paccheri ho pubblicato altre cose, ma avevo voglia di presentarvi prima qualcosa di più facile, immediato, meno laborioso da fare.
Questi non è che richiedano chissà quale abilità, eh, ma diciamo che rispetto ai cornettini di sfoglia (pronta) e alle polpette di couscous, richiedono un pochino di tempo in più.
Amo i Paccheri, li adoro col classico ragù napoletano, quello che, pieno di pezzi di carne (io ci metto pure delle salsicce) diversa, cuoce per minimo otto ore, a fuoco lento, pippiando come si dice a Napoli. Sono un formato di pasta molto versatile, grande, che riempie la bocca. E soprattutto si possono cuocere anche in verticale, dritti, uno accanto all’altro come soldatini assembrati (gli unici assembramenti concessi oggi sono solo quelli di paccheri, mi sa mi sa) in uno di quei timballi da ristorante, sia a teglie intere che nelle più presentabili monoporzioni.
Qui li ho serviti fritti, versione finger food, da aperitivo, all’epoca del Covid. Ripieni di un mix di ricotta e robiola, provola, tanto pepe e salame napoletano. Impanati e fritti.
Chiaramente il ripieno, che ha la ricotta come base, potete farlo come più vi piace. Anche con la mortadella devono essere speciali. O con un ripieno di robiola e melanzane a funghetto, con basilico, che ricorda un po’ i profumi siciliani di una norma. Vi ho convinti a provarli?
I mini pallet me li ha regalati Pasqualina e dopo un anno e mezzo ho trovato la maniera perfetta di inserirli nelle mie foto food.
8 Comments
Pellegrina
20 Giugno 2020 at 12:55
Il mio primo commento lo immaginerai… passo al sodo: non mi dire che è semplice fare quel guscio ai paccheri pure sui lati corti! Il ripieno che hai scelto mi piace assai (oddio forse io non metterei robiola ma mi pare di ricordare che tu la voglia per una questione di consistenza); la mortadella non sarebbe niente male proprio no, ma pure il ragù napoletano che non ho mai assaggiato in vita mia. Ma è la stessa cosa che si chiama anche “genovese”?
La cosa che volevo più dirti in realtà sono due:
la prima che da un po’ di tempo fai delle foto poetiche, a livello di composizione e di abbinamenti tra materiali che usi.
La seconda che ieri sono passata davanti al Jaipur a metà pomeirggio e, pensandoti, mi sono letta tutti i menu (ben sei!) con le diverse proposte che hanno. Non ho ripescato il tuo murgh alla panna, ma mi hanno molto incuriosita quei gelati indiani: ma lo sono davvero? Sono diversi dai nostri? Sono golosissima di gelato, purché sia buono. I piatti in sé li conosco abbastanza, se sono fatti bene devono essere piuttosto buoni. Cosa intendono loro per “alla moda del Rajastan”?
Valentina
20 Giugno 2020 at 13:43
Tesoroooooo, mannaggia, anche io ieri ero in zona. A saperlo. Dunque, punto per punto. Il ragù napoletano è rosso, fatto con pomodoro, cotto per minimo 8 ore a fuoco basso, con dentro diversi tagli di carne (costine, braciole ossia quelli che qui si chiamano involtini con ripieno di aglio e prezzemolo sminuzzati insieme e legati dal filo di spago o chiusi con diversi stuzzicadenti). proprio sulla questione filo vs stuzzicadenti esiste a Napoli una diatriba, pensa te! La genovese invece è in bianco, ha anch’essa una lunghissima cottura e prevede una quantità incredibile di cipolla, ramata, e un pezzo di carne di maiale che, con la cottura prolungatissima, si sFilaccia e in alcuni punti addirittura scioglie.
Valentina
20 Giugno 2020 at 13:44
Ti ringrazio per i complimenti alle foto, per me è molto importante perché dietro ci metto davvero fatica e tanto lavoro, a partire dalla ricerca di stoffine e piattini o posate o accessori che racchiudo nella categoria dei cazzabubboli, e mi faccio da sola anche le tavole di sfondo, con stucco, spugne, rulli, pennelli, tamponi, colori e polvere di ferro che faccio arruginire con l’acqua ossigenata.
Valentina
20 Giugno 2020 at 13:47
Il White Murgh si trova all’inizio della categoria dei curry essendo “zupposo”. La maniera del rajastan indica la cucina della parte a Nord dell’India. Credo di poter affermare con certezza che a differenza di tutti gli altri indiani di Roma, la cui cucina è mescolata con quella del Bangladesh e di base più vegetariani, Jaipur sia il solo che prepari cucina del Nord dell’India, il Rajastan appunto. Loro sono tutti di Jaipur, sono a parte due elementi storici, Ladi e Sharif, una unica famiglia. Pradeep Kumar, e sua moglie Anita e i fratelli di Anita, Sunny e Moni sono i gestori. Il figlio di Pradeep, dal nome che non mi entra in testa, nato in Italia e perfettamente bilingue, risolve ora che è adulto, molti gap linguistici di comprensione delle pietanze ed ingredienti.
Pellegrina
21 Giugno 2020 at 12:16
Quante cose!
Dunque: Jaipur per me ha il sapore di un appuntamento mancato perché a New Delhi e preparandoci a partire per Agra e appunto Jaipur, leggemmo sul giornale: “Jaipur cut off totally” da un’alluvione. Perciò non la vidi mai. Non posso dire di avere approfittato granché della cucina indiana in quel viaggio, per motivi igienici, eravamo minorenni con un insegnante della scuola anche se non si trattava di un viaggio scolastico, quindi in generale non so distinguere le cucine tra loro, a parte l’esperienza della Francia che mi ha insegnato: Vindaloo vade retro Satana o cadi stecchita; Korma: molto buona pappa molto. Insomma un po’ primitiva come pratica. Ricordo degli assai buoni curry di pesce a Madras o era Calcutta?, con una salsa verdolina e profumata di qualcosa di sconosciuto, ma ce li avevano cucinati apposta senza diabolici ingredienti dentro. E i chapati di New Delhi, i manghi dal sapore d’incenso, questi di sicuro a Madras e gli ananas colti dalla pianta, sapore mai più ritrovato, da qualche parte nella campagna attorno a quella città.
I gelati mi piacciono tutti, se fatti artigianalmente. Questi incuriosiscono davvero, sperando che non ci mettano addensanti tipo xantano che non fanno per me. Il latte di mandorla lo adoro, quando non ne contiene. Sono sofistica quanto te, a modo mio, ebbene sì!
A leggere le tue descrizioni delle carni sono svenuta: le spazzolerei entrambe, forse con una predilezione per la genovese. Adoro le carni che si disfano e i sughi che lasciano. Mi ricordano il ripieno dei ravioli di Capodanno della mia lombardo-piemontesissima e amatissima nonna: dei lenzuoli bitorzoluti e spessi che strabotrdavano dal piatto, fatti con la carne cotta. Non ti sembri eresia, ognuno ha le sue madeleines.
Infine, io passo di lì praticamente ogni venerdì nel tardo pomeriggio. Se sei in zona fammi un fischio – e se ti serve qualcosa da Piazza Vittorio, ci abito vicino e posso farti da corriere.
Valentina
20 Giugno 2020 at 13:49
I gelati. Dunque: dimentica il gelato nostro. Si tratta di palline, servite sempre in 3 unità, sia che tu scelga il cocco, il mango o il pistacchio. Sono molto densi, vellutati ma densi, senza uova, solo la pasta ottenuta dal ridurre in purea questi ingredienti, con mandorle di base e latte di mandorla.
Valentina
20 Giugno 2020 at 13:50
Per la panatura esterna del pacchero, invece sì, è facilissima. Raffreddandosi, essendo pasta di Gragnano trafilata al bronzo, e quindi molto porosa, diventa quasi appiccicaticcia. Assorbe l’uovo della panatura. I “buchi” senza pasta ma con la farcia, se la ottieni ben asciutta, si comportano alla stessa maniera. Quindi sì, è la risposta definitiva. E’ facile facile.
Pellegrina
21 Giugno 2020 at 12:27
Te l’ho detto che dovresti dare lezioni di frittura!
Premetto che non giudico mai un blog di cucina dalle foto, in genere sono l’ultima o la penultima delle cose che guardo, ma piuttosto dalle ricette, dalle peculiarità della linea editoriale, cioè dalla scelta alimentare e in parte dalla personalità riscontrabile nei testi. In questo senso non sono la persona più qualificata per dare un giudizio. Tuttavia si vede che le tue foto, belle da sempre, stanno diventando anche sempre più studiate nell’ambientazione, un elemento a cui sono istintivamente sensibile, non essendo in grado invece di giudicare né di capire la tecnica. Mi ha stupito, letteralmente, quella della bottiglietta con la stoffa rosa, un rétro voluto ma delicatamente moderno che evita sapientemente quella sfumatura di sciatteria che il tono casalingo mette a rischio di correre e scansa abilmente pure la leziosità. Tutto questo ha il contrappeso che le pagine diventano lentissime da caricare per chi ha connessioni economiche come la sottoscritta.
Ma non avevo idea di quanto ci lavorassi a predisporre lo sfondo, preparare gli elementi ecc.
Lavorare con le mani è rilassante e gratificante, ma ha il suo prezzo: deve portarti via davvero un tempo folle. Brava!